di Brunella Caiazza*
Ho avuto l’onore di partecipare, in rappresentanza della Fondazione Marisa Bellisario, alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, che si è svolta nella splendida cornice della Sala della Regina di Palazzo Montecitorio. In questo contesto così significativo, non voglio cedere alla tentazione di scrivere banalità o di cadere nella trappola di parlare di politica. Non voglio uscire “fuori tema” o divagare, come diremmo noi “boomer”.
Voglio invece rendere giustizia e considerazione a una valida iniziativa che merita la nostra attenzione e il nostro impegno. Una causa che ha suscitato un profondo coinvolgimento emotivo, facendo emergere in molti di noi un senso di appartenenza e di responsabilità.
Sì, perché la nascita di questa Fondazione ha radici in un evento tragico, violento e doloroso, che non solo suscita rabbia e paura, ma ci spinge a guardare in faccia la realtà e a non voltare lo sguardo altrove.
La Fondazione Giulia Cecchettin è nata con l’intento di «dare una forma concreta ad un sogno …che ha un valore immenso perché è nato da una tragedia immane».
Questa iniziativa ci chiama a un impegno globale, a una connessione profonda con ciò che conta davvero, e ci invita, con fermezza, a non “scollegarci” dal mondo reale – una realtà che spesso, purtroppo, viene ignorata.
La Fondazione Giulia Cecchettin si pone un obiettivo fondamentale: promuovere una cultura del rispetto e combattere la violenza di genere, dando sostegno e risorse alle vittime di violenza ed essere perseveranti, avere costanza e fermezza nel perseguire i propri propositi.
La libertà è un bene assoluto, un diritto inalienabile, che appartiene a ciascuno di noi, perché «nessuno deve essere costretto a vivere una vita che non ha scelto». La violenza di genere è una piaga silenziosa che si nutre dell’ignoranza, di parole violente, di sguardi che non rispettano la dignità dell’altro. È una violenza che non lascia cicatrici visibili, ma che scava nel profondo dell’anima.
Il messaggio che ho ricevuto dal padre di Giulia Cecchettin, uomo segnato dal dolore, è stato un invito all’ascolto e alla condivisione. Non possiamo più permetterci di ignorare questa realtà. Dobbiamo “agire”, non solo perché è nostro dovere, ma perché è nel nostro interesse: cambiare la narrazione, proporre nuovi modelli di relazione sociale basati sul rispetto, sull’uguaglianza, sull’ascolto. Le parole che risuonano nella mia mente sono quelle di un saggio autore: «L’amore si impara, il pregiudizio si impara, l’odio si impara, la premura si impara, la responsabilità si impara, il rispetto si impara, la bontà si impara…». Questi sentimenti non sono innati, ma appresi nel corso della vita, e possiamo scegliere di “disimparare” quelli che ci dividono per imparare quelli che ci uniscono.
Gino Cecchettin ha lanciato un appello emotivo e profondo, che ha trovato in noi una risposta autentica. Ha evocato un senso di appartenenza, riuscendo a connettersi a un livello più profondo, umano. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla violenza di genere, non possiamo voltare lo sguardo quando ascoltiamo le storie di donne intrappolate nella paura e nell’angoscia. Sta a noi, attraverso le nostre azioni quotidiane – anche quelle più piccole, ma decisive – contribuire alla crescita della nostra società, affinché non si disintegri sotto il peso della nostra indifferenza.
L’educazione di genere è uno strumento imprescindibile per contrastare la violenza contro le donne sin dalle sue radici. Dobbiamo promuovere attività consapevoli che possano evitare la cristallizzazione degli stereotipi e favorire la costruzione di una cultura inclusiva della diversità, in cui ciascun individuo possa crescere senza la pressione di modelli imposti. Solo così potremo costruire una società più giusta, una società che non giustifica il femminicidio, ma lo condanna senza riserve.
Il femminicidio, come sappiamo, è l’uccisione di una donna perché è donna. Esso è la manifestazione più estrema di una cultura patriarcale che, purtroppo, persiste ancora oggi. La violenza contro le donne non è solo un atto isolato, ma una violazione sistematica dei diritti umani, che le Nazioni Unite hanno riconosciuto come tale. Il femminicidio non ha un corrispettivo maschile, e proprio per questo è fondamentale che la nostra battaglia non si fermi alle parole, ma diventi un impegno quotidiano.
Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale. Non possiamo più ignorare la violenza e restare in silenzio. Dobbiamo ascoltare, condividere, e, soprattutto, educare le nuove generazioni al rispetto reciproco, alla parità, alla dignità. Ogni piccolo gesto conta, ogni parola può fare la differenza. È nostro compito dare vita a una società che promuova l’uguaglianza, che difenda la libertà di ognuno e che combatta ogni forma di discriminazione. Solo così potremo sperare di costruire un futuro migliore per tutti.
In questo contesto, il cambiamento deve essere profondo e collettivo. Non possiamo più limitarci a sperare: dobbiamo agire, con coraggio, determinazione e consapevolezza. La violenza di genere è un problema strutturale che riguarda l’intera società e non possiamo permetterci di ignorarlo. È una battaglia che dobbiamo combattere insieme, ogni giorno, con il cuore pieno di speranza e la mente pronta a costruire un domani migliore.
Siamo esseri profondamente relazionali, e ogni nostra connessione, dalle più insignificanti a quelle fondamentali, dalle più innocenti a quelle adulte, si nutre delle emozioni e dei sentimenti che attraversano il nostro essere. Ogni relazione è, in fondo, una danza emotiva che, se compresa, può diventare una fonte di crescita e armonia. Conoscere la differenza tra emozioni e sentimenti non è solo utile, è essenziale. È la chiave per comprendere e curare il nostro legame con gli altri, per costruire ponti invece di muri. E per questo motivo, saperli indagare, esplorare, conoscere è un atto di consapevolezza che apre la porta alla verità del nostro cuore.
La violenza maschile sulle donne, purtroppo, continua a essere una piaga sociale che viene troppo spesso trattata come un “problema delle donne”, come se il cuore del fenomeno risiedesse solo in loro. Ma la realtà è ben diversa: è una questione che riguarda tutti, uomini e donne, e che si radica in una cultura patriarcale che ancora oggi infetta le fondamenta stesse della nostra società. Troppo spesso, la violenza viene ridotta a un’idea semplicistica: donne vittime e uomini malati o devianti. Ma la verità è che questa violenza non è solo un’azione, è un segno, una manifestazione di un sistema profondo che continua a perpetuarsi nelle nostre menti e nei nostri comportamenti.
È fondamentale andare oltre il superficiale, mettere in discussione le strutture di potere che ci definiscono e riconoscere che la violenza non è un destino, ma un prodotto di secoli di disuguaglianza. La disparità di potere tra uomini e donne è una ferita che, purtroppo, non si è ancora rimarginata, e il silenzio non farà altro che allargarla. Non possiamo più accontentarci di sperare in un cambiamento, dobbiamo essere parte di quel cambiamento. Dobbiamo stigmatizzare, combattere, denunciare, ma soprattutto riflettere e agire con parole giuste, argomentazioni razionali e precise, che rispettano l’intelletto e la dignità altrui.
Ogni parola che non viene detta è una possibilità persa per trasformare la realtà. Ogni gesto di resistenza è un seme che germina nel terreno della consapevolezza. Non possiamo più permetterci di rimanere indifferenti. La battaglia non è solo delle donne, è di tutta la società, è di ogni essere umano che crede in una convivenza giusta e rispettosa. Tutti noi dobbiamo avere un ruolo attivo, perché il cambiamento deve essere profondo e collettivo, perché la violenza di genere va affrontata come un problema strutturale che riguarda l’intera società.
Solo quando riusciremo a vedere il problema nella sua interezza, a riconoscere che la violenza non nasce solo dall’atto di un individuo, ma da un contesto che lo alimenta, solo allora potremo iniziare davvero a costruire una società che respinge la violenza in ogni sua forma.
*Avvocato
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