Dall’uccisione di Giulia Cecchettin sono state 113 donne, una ogni tre giorni, a perdere la vita per mano di un uomo. Secondo i dati del Viminale, nei primi dieci mesi del 2023 e negli stessi di quest’anno il numero di femminicidi è spaventosamente identico. Eppure qualcosa è successo. Lo dicono altri numeri, quelli del 1522 per esempio, con le telefonate aumentate del 70%, a chiamare non sempre le vittime ma amici, genitori, fratelli o sorelle. Si è infranto l’isolamento delle vittime, il tabù che induceva chi stava intorno a loro a restare in silenzio ed è cresciuta anche la capacità di cogliere i segnali per fermare l’escalation di violenza. Non basta, certo, e a dirlo sono le vite spezzate.
Ogni 25 novembre, ormai da ventisei anni, ci ritroviamo a scrivere di violenza e a cercare di capire come. Come fermare l’emorragia, come intervenire, quali strumenti adottare. La lezione del padre di Giulia è forse la più importante: l’odio, lo scontro, le accuse reciproche ci allontano dall’obiettivo. La cultura non si combatte, anzi le armi la esacerbano, la cultura si cambia e un fenomeno complesso e, questo sì, trasversale a ogni ambiente, contesto, classe anagrafica e sociale come la violenza di genere può esser vinto solo grazie a una grande, stretta, sinergica alleanza tra Stato, società civile, imprese, associazioni. Da soli, gli uni contro gli altri armati, non si va da nessuna parte.
Le istituzioni ci sono e sarebbe un torto negarlo. Per la prima volta è nata una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere che sta lavorando – io stessa sono stata chiamata in audizione – per arrivare alla redazione di un testo unico perché i provvedimenti (bipartisan) approvati in questi anni sono così tanti che la Corte di Cassazione ha parlato di “un vero e proprio arcipelago nel quale non sempre è facile orientarsi”. Garantire la loro reale efficacia ed efficienza è il primo e più importante obiettivo. Certo, interroga il malfunzionamento di uno strumento salutato come risolutivo, il braccialetto elettronico. Sono più di 10mila quelli attivi, raddoppiati nell’ultimo anno per l’inasprimento delle norme. Eppure solo tra settembre e ottobre tre donne sono state uccise nonostante i loro aggressori lo indossassero e il sindacato dei carabinieri parla di 20mila falsi allarmi che fanno correre le pattuglie dove non serve e mettono le donne in allerta perenne. Parliamo di Intelligenza Artificiale, di transizione digitale e non riusciamo a far funzionare un semplice salva vita… Ma non basta questo, a mio avviso, per trasformare una giornata simbolo e importante in un agone politico di accuse e recriminazioni. Non serve e non paga.
Se fin qui l’azione del Parlamento ha cercato di dare compimento alla protezione e punizione indicate dalla Convenzione di Istanbul, l’azione dirimente sono le altre due P cui la convenzione fa riferimento: Prevenzione e Politiche integrate e coordinate. Prevenire la violenza di genere significa incidere su tutte le cause, materiali e culturali, che la originano. E dunque abbattere gli stereotipi, combattere le discriminazioni, trasformare in profondità i rapporti di potere tra i generi, scardinare un sistema che delegittima le donne a livello politico, economico, sociale. Un’azione totale, impegnativa che ci chiama in causa tutti, nessuno escluso.
E allora, innanzitutto, facciamo tutti – istituzioni, società civile, media, uomini e donne – lo sforzo di parlare di violenza senza evocare unicamente il femminicidio. Quello è l’epilogo ma solo occupandoci di tutto quello che c’è dietro troveremo il bandolo della matassa. Parliamo di violenza economica, subdola e terribile, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto in presenza di figli. Parliamo di violenza psicologica, sottile e tagliente come lama di coltello, e di quei lividi che magari non sfoceranno mai in un delitto ma che distruggono quotidianamente la vita di troppe donne. Non leghiamoci alle parole – patriarcato sì o no – ma alla sostanza.
“Per l’uomo, più che per la donna, è importante avere successo nel lavoro”; “Gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”; “È l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia”. È questo che pensa un italiano su tre, dice l’Istat. Sul fronte violenza vera e propria, va ancora peggio: per il 40% degli uomini è colpa delle donne se vengono violentate; il 39,3% di loro è convinto che una donna sia in grado di sottrarsi, se davvero lo vuole, a un rapporto sessuale; l’11% di uomini e donne ritiene che una donna ubriaca (o sotto effetto di droghe) sia in parte responsabile dello stupro. Ancora più inquietante quello che pensano i più giovani, 1500 tra i 14 e i 19 anni interrogati dalla Fondazione Libellula. Per un ragazzo su due, di entrambi i sessi, la gelosia è una forma di amore e interesse, il 40% di loro non ritiene lo stalking una forma di violenza e 4 ragazze su 10 credono che essere controllate, dare il telefono, obbedire siano gesti tollerabili. Il 14% dei ragazzi e il 2% delle ragazze – poco ma già troppo – ritengono normale costringere qualcuno ad avere rapporti sessuali.
Come si demoliscono stereotipi tanto insulsi quanto diffusi e radicati? È come scalare l’Everest e per questo l’impegno deve essere ancora più capillare, partire da scuole e famiglie, coinvolgere studenti di ogni ordine e grado, sin dalla prima infanzia. All’indomani della scomparsa di Giulia si era parlato di rendere l’educazione alle relazioni obbligatoria nelle scuole e sembra che poco o niente si sia fatto. Un tema che il governo deve riprendere in mano, subito. Ma smettiamola di trovare il colpevole nell’altro. La formazione a scuola, così come le campagne di sensibilizzazione – e che non siano episodiche – sono importanti ma non possono bastare. Perché se poi quegli stessi ragazzi ai quali cerchiamo di insegnare i principi di parità e rispetto hanno a casa l’esempio di una madre che è stata costretta a lasciare il lavoro al loro arrivo, che è la sola responsabile del lavoro di cura, che non ha un conto corrente e vive in una posizione di subordinazione e dipendenza, allora tutto sarà inutile. Gli stereotipi si demoliscono con la realtà quotidiana di una società in cui il lavoro di una donna è importante, dignitoso, remunerato quanto quello di un uomo. Occupazione e leadership femminili, parità salariale, role model sono i primi e più importanti strumenti per prevenire la violenza. Lo diciamo da anni e continueremo a farlo.
Chiudo con delle proposte concrete su alcuni strumenti in essere: centri anti violenza e reddito di libertà. Sappiamo tutti che secondo norme internazionali ed europee, ogni 10mila donne dovrebbe esserci un posto in una casa rifugio ma siamo ancora molto lontani. È fondamentale la governance e il monitoraggio sia della parte economica sia del funzionamento effettivo dei centri antiviolenza, servono finanziamenti a più lungo termine e un taglio deciso della burocrazia e dei passaggi che spesso strozzano le risorse e allungano inverosimilmente i tempi. Un’altra proposta è inserire il diritto delle donne ad accedere a un centro antiviolenza tra i Lep ovvero i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che devono essere garantiti sull’intero territorio nazionale: un aiuto economico e logistico ma anche un segnale importante per chi è già oggi vittima di violenza in famiglia e non denuncia perché non sa dove rifugiarsi. Io stessa oramai da anni propongo di trasformare una quota degli immobili confiscati alle mafie in centri di accoglienza e formazione per le donne vittime di violenza. I fondi del Pnrr potrebbero venire in aiuto. Quando al reddito di libertà, è una misura che da anni auspicavo ed è un bene che sia stata approvata e finanziata fino al 2027 ma è evidente che il meccanismo va rivisto. La differenza tra numero di domande presentate e accolte è troppo alta, specie in alcune Regioni. Così come la suddivisione dei fondi in base al numero di donne presenti sul territorio e il requisito per le richiedenti di essere già seguite da centri antiviolenza mi sembrano meccanismi da rivedere.
Agiamo subito, insieme e ognuno nel proprio quotidiano perché il 25 novembre resti un giorno per ricordare le vittime di una violenza estirpata e vinta una volta per tutte.
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