di Ornella del Guasto*
Il quadro geopolitico mondiale cambia a una tale velocità da impedire agli analisti di impostare una previsione affidabile. Los Angeles è piombata nel caos in seguito alle manifestazioni contro l’arresto e l’espulsione degli immigrati irregolari che progressivamente si stanno estendendo alle maggiori città d’America. Trump, per stabilizzare la sua popolarità altalenante e in nome del “fermiamo l’invasione”, ha cavalcato l’umore prevalente di ostilità nei confronti dei clandestini giocando a proprio vantaggio sulla pelle delle masse più indifese, incurante che queste in larga parte costituiscano ormai la struttura funzionale dell’economia americana. E non basta! Dopo un’appassionata ma burrascosa alleanza, durata mesi, Trump e Musk hanno rotto clamorosamente i rapporti. La causa principale di incompatibilità che li ha portati allo scontro quasi fisico pare vada attribuita al “One Big Beautiful Bill” in cui Trump vuole inserire i tagli fiscali ad altre e nuove priorità tra cui la sicurezza dei confini, facendo infuriare Musk che gli ha rinfacciato il sicuro impatto di una tale decisione sul debito nazionale. Ma Musk soprattutto si sente danneggiato dal progressivo disinteresse del Presidente verso i veicoli elettrici che secondo lui “nessuno vuole “. La lite furiosa tra i due leader – riferisce il Bloomberg Billionaire Index – ha fatto perdere a Musk in un solo giorno 330 miliardi di dollari di patrimonio netto, una delle peggiori perdite della storia. Gli osservatori, straniti e preoccupati dalle conseguenze della rottura sull’economia mondiale, si sono rifugiati nella speranza che poiché l’amicizia è impostata più che su una sincera amicizia soprattutto sui vantaggi reciproci, presto si sarebbe ricomposta. Come puntualmente è avvenuto. Dopo 2 giorni, riassorbita la sfuriata , Musk ha chiesto scusa e ammesso di “essersi spinto troppo oltre”.
In questo turbolento contesto geopolitico si è invece concluso pacificamente il vertice a Londra tra la delegazione americana e cinese. L’incontro, giocato sul reciproco interesse, ha permesso di superare le questioni più difficili che avevano causato l’impasse degli altri confronti: l’accesso per gli USA alle terre rare e ai minerali critici cinesi e l’accesso per Pechino alla tecnologia per l’intelligenza artificiale “made in Usa”.
Dobbiamo prendere atto che ormai viviamo un’epoca in cui ogni strategia è cambiata, ha scritto la stampa, in cui la forza e il dominio non risiedono più sulla potenza militare o economica perché nel XXI secolo il potere non è più nelle mani di chi ha capacità di produrre quanto di chi ha il potere di decidere chi non può più farlo. Per Cina e USA quindi l’accordo ha risolto non una guerra commerciale ma la guerra sistemica che nel futuro non si baserà più solo sulla produzione ma anche sui brevetti e sulla capacità di innovare.
La Cina oggi ha certamente un vantaggio strutturale ma anche se estrae il 69% del totale del pianeta di terre rare, minerali e magneti fondamentali allo sviluppo tecnologico USA nell’automotive, nell’industria aerospaziale, nei semiconduttori, microchip ecc, ha però a sua volta necessità vitale di microchip e software ad altissima tecnologia, fondamentali per l’Intelligenza Artificiale e per il proprio sviluppo digitale. Così benevolmente a Londra le due delegazioni hanno sbloccato l’impasse e trovato l’accordo anche su altri argomenti: la Cina riprenderà l’invio di terre rare e magneti e gli USA le tecnologie concordate, è sospeso l’aumento provocatorio ed esagerato dei dazi e restituito il visto agli studenti cinesi per l’accesso alle Università di prestigio americane.
Alla chiusura del vertice, il vice-primo ministro cinese He Lifeng ha auspicato che «i progressi compiuti nell’incontro di Londra contribuiscano a rafforzare la fiducia tra i due Paesi e a promuovere ulteriormente lo sviluppo costante e sano dei legami economici e commerciali bilaterali. Il dialogo bilaterale – ha aggiunto infine – apporterà anche energia positiva alla crescita economica globale».
In politica estera invece i rapporti tra Cina e USA vanno diversamente. Inquietanti venti di ostilità reciproca soffiano in Medio Oriente dove la violenta crisi tra Iran e Israele lascia il mondo con il fiato sospeso anche perché è difficile interpretare la posizione degli USA (colti di sorpresa o compiacente doppiogiochismo?). Ma l’apprensione mondiale riguarda anche l’Indo Pacifico, un’area che è ormai l’ossessione di Trump per cercare di fermare Pechino che intende usarla come punto di partenza per scalzare l’America dall’egemonia del mondo. Da tempo, lungo le rotte del Pacifico, Pechino sta usando le sue capacità informatiche per molestare gli alleati degli americani nel Mar Cinese meridionale. Non a caso lo scorso mese Peter Hegseth, nel suo primo discorso da Segretario alla Difesa USA a un vertice di Singapore, ha rimesso al centro della sua analisi il futuro di Taiwan, l’isola-Stato di fatto indipendente ma che Pechino rivendica come parte del proprio territorio anticipando che «un attacco militare cinese a Taiwan potrebbe essere imminente» perché la Cina vuole diventare potenza egemonica in Asia, e per questo obiettivo, l’esercito si addestra ogni giorno, riferendosi a presunti piani militari cinesi intercettati dall’intelligence Usa. La Cina si sta preparando in modo credibile a usare la forza militare per alterare l’equilibrio di potere nell’Indo-Pacifico. D’altra parte è di dominio pubblico che Xi ha ordinato al suo esercito di essere in grado di invadere Taiwan entro il 2027 e questo dovrebbe suonare come campanello d’allarme perché qualsiasi tentativo «della Cina comunista di conquistare Taiwan avrebbe effetti devastanti non solo per l’Indo-Pacifico ma per il mondo intero». Poi Hegseth, per addolcire la pillola, ha assicurato che gli Stati Uniti sono tornati nell’Indo-Pacifico per restarci e gli alleati non dovranno dubitare della protezione USA nei loro confronti (mentre i cinesi li stanno mettendo in guardia dall’inaffidabilità di Washington). «Continueremo a stringere le braccia intorno ai nostri amici – ha precisato con enfasi – esplorando nuovi modi di collaborazione ma è necessario che loro si assumano una maggiore responsabilità per le rispettive difese convenzionali senza aspettarsi che gli Usa si facciano carico di tutti gli oneri finanziari» (il collaudato mantra di Trump rivolto agli alleati sotto tutti i cieli). Furiosa la reazione di Pechino alle dichiarazioni di Hegseth: «Gli Stati Uniti non dovrebbero giocare con il fuoco cercando di usare Taiwan come merce di scambio per contenere la Cina. La “questione di Taiwan” è puramente interna alla Cina e nessun Paese straniero ha il diritto di interferire».
È un fatto però che l’8 giugno il Giappone abbia registrato operazioni di decollo e di atterraggio di aerei da combattimento e di elicotteri dalla nave cinese Liaoning nelle acque a sud-est di Iwo Jima ed è sempre in allerta anche la Russia. Sulla carta e la pubblicità Mosca è legata a Pechino da “un’alleanza inattaccabile” ma nella realtà Mosca è invece sempre più preoccupata dallo spionaggio cinese e nutre “profondi sospetti” nei confronti del suo alleato. Il New York Times ha riferito che il servizio di sicurezza interno russo è riuscito a intercettare un documento di otto pagine dell’Fsb (l’agenzia federale russa di intelligence che ha sostituito il KGB) contenente minacce per la sicurezza russa elencate dalla Cina. Per cui anche se in pubblico (afferma la stampa internazionale non si sa con quanta credibilità) Vladimir Putin sostiene che l’amicizia sino-russa è indistruttibile, nei corridoi della Lubjanka, quartier generale dell’Fsb, si teme che prima o poi i cinesi possano accampare rivendicazioni su alcuni territori russi. Una svolta positiva per la Russia sta però venendo dalla crisi tra Israele e Iran e per tre motivi: distrae l’impaurita attenzione mondiale dalla “questione Ucraina”, fa salire i prezzi del petrolio con imprevisti benefici per l’economia e offre un inedito protagonismo a Putin dopo che Trump ha ipotizzato di volergli attribuire il ruolo di “paciere” tra i due contendenti
*Political and socio-economic analyst