Fondazione Marisa Bellisario

IL CARCERE E LA LEZIONE DI PAPA FRANCESCO

di Paola Balducci*

Ci sono luoghi dove il tempo sembra fermarsi, e altri dove il cambiamento diventa una necessità.

Il carcere è uno di quei luoghi dove il dolore, la speranza e la dignità convivono in uno spazio ristretto, spesso invisibile agli occhi della società. Da sempre, l’esecuzione penale racconta non solo la storia dei singoli reati, ma anche il grado di civiltà di una comunità. E proprio per dare un senso diverso alla pena, nel nostro ordinamento si è tracciato un percorso importante: il carcere non come mera reclusione, ma come occasione di riscatto. A 50 anni dall’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario e a 25 anni dall’apertura di una porta santa in un carcere, anche Papa Francesco, con la forza semplice dei suoi gesti, ci ha ricordato che ogni persona, anche dietro le sbarre, custodisce una possibilità di rinascita.

L’ordinamento penitenziario italiano, ispirato ai principi costituzionali, ha tentato di tradurre in pratica questa idea. Tuttavia, l’attuale condizione degli istituti di pena racconta una realtà molto diversa: sovraffollamento, disagio psichico, marginalizzazione sociale. Le misure trattamentali faticano a essere applicate pienamente; la rieducazione rischia di restare un enunciato più che una pratica concreta.

In questo quadro, la voce di Papa Francesco si è levata con forza, indicando con insistenza la necessità di uno sguardo nuovo verso chi vive la condizione carceraria: dalle visite nei penitenziari alla lavanda dei piedi durante il Giovedì Santo ha ricordato che la dignità della persona non si perde, neppure dopo l’errore più grave.

E proprio in questa prospettiva, il Pontefice ha rilanciato con decisione la riflessione su strumenti straordinari di clemenza, come l’amnistia e l’indulto. Questi istituti, disciplinati dalla Costituzione e non semplici atti eccezionali, rappresentano per il Pontefice una forma concreta di giustizia umanizzante: non indulgenze facili, ma risposte mature a situazioni di sofferenza e squilibrio. L’amnistia e l’indulto, se adottati con saggezza, non sono segni di debolezza dello Stato, ma di forza morale e di visione alta del diritto.

Quando le carceri scoppiano, quando i diritti fondamentali sono violati, quando il dolore si stratifica fino a diventare invisibile, allora intervenire non è solo possibile: è doveroso. La clemenza pubblica diventa uno strumento di ripristino dell’equilibrio costituzionale e sociale, a tutela della dignità di tutti, non solo dei detenuti.

In questa prospettiva, celebrare oggi la giustizia penale significa porsi domande scomode ma necessarie: siamo davvero riusciti a superare la cultura “carcerocentrica”? Le misure alternative alla detenzione stanno svolgendo realmente la funzione per cui sono state congeniate? Abbiamo dato piena attuazione all’ideale rieducativo scolpito nella nostra Carta fondamentale?

Non è sufficiente affidarsi alla sola buona volontà di pochi. Serve una nuova stagione di riforme: che intervenga sulle strutture, che rilanci i percorsi di formazione e di lavoro per i detenuti, che rafforzi il supporto sanitario e psicologico, che promuova la giustizia riparativa come forma matura di risposta al reato.

Il carcere non deve essere l’ultima frontiera della marginalizzazione, ma il primo spazio di una cittadinanza ritrovata. Deve essere luogo di futuro, non solo di pena.

Celebrare i gesti simbolici come l’apertura di una Porta Santa all’interno di un carcere non è un esercizio retorico: è un invito a riaprire anche, e soprattutto, la nostra legislazione e la nostra cultura giuridica alla speranza, alla fiducia nel cambiamento possibile. Perché il modo in cui trattiamo chi ha sbagliato dice chi siamo e ci interroga sulla società che vogliamo costruire.

*Professoressa di Diritto Luiss Guido Carli

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